CASI DELLO STUDIO

3 Marzo 2019

Non sempre si può licenziare durante il periodo di prova

Con grande frequenza nei contratti di lavoro viene inserito il c.d. “patto di prova”, per cui nel periodo iniziale del rapporto ciascuna delle parti ha la facoltà di recedere dal contratto senza preavviso o indennità e senza la necessità di un particolare motivo economico o disciplinare, dandosi così modo al datore di lavoro di verificare [leggi tutto]

Con grande frequenza nei contratti di lavoro viene inserito il c.d. “patto di prova”, per cui nel periodo iniziale del rapporto ciascuna delle parti ha la facoltà di recedere dal contratto senza preavviso o indennità e senza la necessità di un particolare motivo economico o disciplinare, dandosi così modo al datore di lavoro di verificare le capacità professionali del lavoratore.

Tuttavia, troppo spesso si assiste ad un vero e proprio abuso della clausola di prova, azionata arbitrariamente per espellere il lavoratore per le motivazioni più disparate (magari semplicemente una scarsa empatia con l’uno o l’altro responsabile), del tutto estranee alla causa tipica del patto e dunque alle effettive capacità del lavoratore.

Ma attenzione perché non solo il lavoratore può in questi casi dimostrare il positivo superamento dell’esperimento, ma ha altresì comunque la possibilità di contestare la stessa validità della clausola di prova, che spesso viene redatta in maniera estremamente generica, senza alcuna specificazione delle mansioni demandate (ma ad es. con un generico riferimento al ruolo da ricoprire, non meglio definito): in questi casi il patto di prova é del tutto inefficace ed il licenziamento che su di esso si sia basato risulterebbe illegittimo.

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Trib.-Bologna-Sez.-Lav.-Ord.-n.-4933-2016-dott.-M.-Marchesini.pdf
3 Marzo 2019

Licenziamento disciplinare: i limiti al controllo occulto dei lavoratori

E’ legittimo il licenziamento disciplinare che sia il frutto di un’osservazione condotta in maniera occulta (c.d. controllo occulto) da parte di un’agenzia investigativa appositamente incaricata dal datore di lavoro (attuato con pedinamento, dispositivi di tracciamento GPS ecc..). Le disposizioni di cui agli artt. 2 e 3 Stat. lav., che delimitano e regolamentano le possibilità di [leggi tutto]

E’ legittimo il licenziamento disciplinare che sia il frutto di un’osservazione condotta in maniera occulta (c.d. controllo occulto) da parte di un’agenzia investigativa appositamente incaricata dal datore di lavoro (attuato con pedinamento, dispositivi di tracciamento GPS ecc..).

Le disposizioni di cui agli artt. 2 e 3 Stat. lav., che delimitano e regolamentano le possibilità di controllo del lavoratore a tutela della sua libertà e dignità, non precludono infatti il potere dell’imprenditore di ricorrere alla collaborazione di soggetti esterni (quale, nella specie, un’agenzia investigativa) per il controllo occulto del lavoratore nell’ambito dei c.d. controlli difensivi, al fine di verificare la eventuale commissione di illeciti.

Tuttavia, la giurisprudenza ha avuto modo anche di precisare con la stessa forza che “il controllo delle ‘guardie particolari giurate’ – oppure, come nella specie di un’agenzia investigativa – non può riguardare, in nessun caso, né l’adempimento né l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera – essendo l’inadempimento stesso riconducibile, come l’adempimento, alla “attività lavorativa”, che è sottratta alla loro vigilanza – ma deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione contrattuale prospettata”.

Non é poi sufficiente addurre il pretesto dell’accertamento di eventuali illeciti per dar la stura e libero accesso ai controlli occulti sulla mera inadempienza nello svolgimento diligente della prestazione lavorativa, che come tali continuano ad essere vietati.

Anche la dottrina prevalente ha individuato come sanzione principale la nullità radicale dell’atto in cui si concreta l’esercizio del potere di vigilanza e dunque l’inammissibilità della contestazione disciplinare al lavoratore di sue mancanze conosciute dal datore per mezzo di spie o sorveglianti occulti, nonché l’inutilizzabilità di tali fonti di conoscenza per la prova giudiziale della mancanza: regola, questa, desumibile non soltanto dall’art. 3 St. Lav., ma anche, in via analogica, dall’art. 2, comma 2 St. Lav., che vieta alle guardie giurate di contestare ai lavoratori azioni o fatti diversi da quelli che attengono alla tutela del patrimonio aziendale.

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Trib.-Bologna-Sez.-Lav.-Ord.-10-4-2017-Dott.-M.-Marchesini.pdf
3 Marzo 2019

Sequestro giudiziario di azienda in caso di inadempimento dell’affittuario

È ammesso il ricorso allo strumento cautelare del sequestro giudiziario dei beni immobili aziendali qualora sia verosimilmente intervenuta la risoluzione del contratto di affitto per inadempimento contrattuale di parte affittuaria (sulla base dell’attivazione dell’apposita clausola risolutiva) e vi sia fondato rischio di incuria nella custodia e nella gestione di beni aziendali, nonché di atti di [leggi tutto]

È ammesso il ricorso allo strumento cautelare del sequestro giudiziario dei beni immobili aziendali qualora sia verosimilmente intervenuta la risoluzione del contratto di affitto per inadempimento contrattuale di parte affittuaria (sulla base dell’attivazione dell’apposita clausola risolutiva) e vi sia fondato rischio di incuria nella custodia e nella gestione di beni aziendali, nonché di atti di disposizione con depauperamento dell’avviamento aziendale, al fine di limitare il grave ed irreparabile pregiudizio derivante dall’attesa della definizione di un giudizio ordinario.

I presupposti per la concessione di tale provvedimento cautelare sono la probabile esistenza del diritto fatto valere e il periculum di deterioramenti, alterazioni, o sottrazioni del bene-azienda prima che la parte ricorrente ottenga una sentenza che gli consenta di mantenere o di acquisire la proprietà o il possesso del bene stesso nonché l’opportunità di provvedere alla sua custodia o gestione temporanea.

La funzione del sequestro giudiziario di beni è quella di conservare l’integrità materiale e la produttività dei beni nonché di assicurare l’utilità pratica della sentenza di merito di condanna, alla consegna o al rilascio, di quegli stessi beni sottoposti al vincolo cautelare; ove, infatti, tali beni fossero sottratti, alterati o deteriorati, la parte vittoriosa non potrebbe più ottenere l’effettiva soddisfazione del proprio diritto alla consegna o al rilascio e l’esecuzione, di conseguenza, sarebbe infruttuosa.

Nel caso deciso, infatti, il Tribunale – con provvedimento confermato sia in fase di reclamo che, successivamente, all’esito del giudizio di merito – ritenendo correttamente allegato da parte del ricorrente l’inadempimento della parte affittuaria, e dunque verosimilmente intervenuta la risoluzione del contratto di affitto d’azienda, e ritenuto fondato il rischio da questi paventato, ha autorizzato il sequestro giudiziario del complesso immobiliare aziendale nominando quale custode giudiziario il rappresentante legale dell’azienda concedente, essendo nella fattispecie configurabile una controversia sulla detenzione qualificata.

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Trib.-Rimini-Sez-Unica-Civ.-ord.-12-5-2017.pdf
3 Marzo 2019

Personale scolastico: diritto alla integrazione ricostruzione della carriera

La normativa nazionale (art. 485, co.1, del D.lgs. n. 297/94, c.d. Testo Unico della Scuola) prevede che il servizio prestato in qualità di docente non di ruolo è “riconosciuto come servizio di ruolo, ai fini giuridici ed economici, per intero per i primi quattro anni e per i due terzi del periodo eventualmente eccedente, nonché [leggi tutto]

La normativa nazionale (art. 485, co.1, del D.lgs. n. 297/94, c.d. Testo Unico della Scuola) prevede che il servizio prestato in qualità di docente non di ruolo è “riconosciuto come servizio di ruolo, ai fini giuridici ed economici, per intero per i primi quattro anni e per i due terzi del periodo eventualmente eccedente, nonché ai soli fini economici per il rimanente terzo”. L’art. 526 co. 1 della medesima normativa prevede poi che: “Al personale docente ed educativo non di ruolo spetta il trattamento economico iniziale previsto per il corrispondente personale docente di ruolo”.

Ciò costituisce una palese violazione del principio di parità di trattamento tra il lavoro svolto a tempo indeterminato e quello svolto a tempo determinato sancito dalla Direttiva europea n. 70/99: sul punto è intervenuta a più riprese la Corte di Giustizia Europea.

La normativa nazionale si pone dunque in contrasto con il diritto comunitario e, sulla base del c.d. principio di preminenza, deve conseguentemente essere disapplicata.

Le sentenze interpretative della Corte di Giustizia Europea vincolano infatti anche il giudice interno, che ha l’obbligo di interpretazione conforme (cfr. tra molte, sentenza 13/11/1999, causa C-106/89 “Merleasing”, punti 8-9; sentenza 16/06/2005, causa C-105/03 “Pupino”, punti 43-47), alla stregua di un vero e proprio jus superveniens con efficacia retroattiva (nel medesimo senso, costantemente anche la Corte Costituzionale, ex multis ordinanza n. 252/2006), ciò trovando fondamento nell’esigenza di applicazione uniforme del diritto della UE in tutto il territorio dell’Unione.

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Trib.-Bologna-Sez.-Lav.-sent.-n.-97-2017-dott.-C.-Sorgi.pdf
3 Marzo 2019

Licenziamento per motivi economici e stabilizzazioni

Nel caso deciso, una lavoratrice si era vista licenziare a seguito di una “riorganizzazione complessiva dell’attività”, che aveva portato alla soppressione del suo ruolo. Per la legittimità di un tale atto di recesso, è necessario che il motivo dedotto non solo sia effettivo (vero), ma anche che non sussistessero alternative posizioni ricopribili dal lavoratore, che [leggi tutto]

Nel caso deciso, una lavoratrice si era vista licenziare a seguito di una “riorganizzazione complessiva dell’attività”, che aveva portato alla soppressione del suo ruolo.

Per la legittimità di un tale atto di recesso, è necessario che il motivo dedotto non solo sia effettivo (vero), ma anche che non sussistessero alternative posizioni ricopribili dal lavoratore, che potessero consentirgli la conservazione del posto di lavoro (c.d. onere di repêchage), valutando sia mansioni equivalenti che inferiori.

Concretamente una tale verifica viene svolta tramite la produzione e l’esame del Libro Unico del Lavoro: infatti, l’esame del libro é la migliore cartina di tornasole, giacché eventuali nuove assunzioni in un periodo successivo al licenziamento dimostrerebbero in maniera lampante la pretestuosità del motivo addotto.

Così é stato anche nel caso deciso, in cui era emergeva come mentre l’azienda licenziava la ricorrente, nel contempo trasformava alcuni contratti a tempo determinato, stabilizzandoli, ciò che la giurisprudenza equipara a vere e proprie nuove assunzioni, con conseguente illegittimità del recesso.

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TRIB.-BOLOGNA-SEZ.-LAV.-ORD-2903-2018.pdf
13 Novembre 2018

La (non) discriminatorietà del licenziamento per motivi di salute

E’ il lavoratore a dover provare la sussistenza del licenziamento asseritamente determinato da ragioni di discriminazione politica, religiosa o sindacale, e tale onere probatorio non è circoscritto alla dimostrazione della sola appartenenza del prestatore ad un determinato partito, o movimento religioso, o sindacato, o alla dimostrazione della mera partecipazione alle correlative attività, atteso che su [leggi tutto]

E’ il lavoratore a dover provare la sussistenza del licenziamento asseritamente determinato da ragioni di discriminazione politica, religiosa o sindacale, e tale onere probatorio non è circoscritto alla dimostrazione della sola appartenenza del prestatore ad un determinato partito, o movimento religioso, o sindacato, o alla dimostrazione della mera partecipazione alle correlative attività, atteso che su quell’appartenenza o partecipazione (peraltro valutabile come elemento indiziario) la legge non fonda alcuna presunzione – né assoluta, né relativa – di licenziamento discriminatorio. La Suprema Corte ha recentemente ribadito tale impostazione, in un caso in cui un lavoratore lamentava di aver subito una discriminazione legata all’orientamento sessuale, laddove il datore di lavoro lo aveva licenziato per giusta causa: «seppure dovesse ritenersi che non sussista la giusta causa perché il fatto fosse lecito o non grave, esso non sarebbe per ciò solo discriminatorio».

Nel caso che trattato, con l’impostazione proposta da controparte finiva, in particolare, per pretermettere anzitutto un pur incontestato dato fattuale: le sopravvenute limitazioni di ordine fisico nell’esecuzione della mansione assegnata, che hanno (certamente e comunque) inciso negativamente sulle possibilità di rendere la prestazione lavorativa (espresse dal giudizio del MC, peraltro non sottoposto ad impugnazione né in alcun modo contestato nemmeno in questa sede), poiché un conto é verificare se il datore di lavoro ha o meno correttamente valutato ogni possibilità di utilizzo della prestazione residua, altro é sostenere che l’eventuale inesatto assolvimento di un tale onere coincida con la natura discriminatoria dal conseguente recesso.

Ove il licenziamento asseritamente discriminatorio sia basato sulla inidoneità sopravvenuta alle mansioni, data dalle limitazioni imposte dal Medico Competente, che avevano fatto venir meno quel minimum di capacità fisiche costituenti “requisito essenziale e determinante” per lo svolgimento dell’attività lavorativa, anche ex art. 3 co. 5 d. vo n. 216/2003 – va esclusa la natura discriminatoria del licenziamento che ne é conseguito.

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Memoria-difensiva-esclusione-socio-di-cooperativa-licenziamento-per-inidoneita-sopravvenuta-1.pdf
13 Novembre 2018

Demansionamento: onere della prova e quantificazione del danno professionale

L’art. 2103 c.c. prevede che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. Lo ius variandi del datore di lavoro non può essere utilizzato [leggi tutto]

L’art. 2103 c.c. prevede che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.

Lo ius variandi del datore di lavoro non può essere utilizzato in maniera indiscriminata ed è sottoposto al controllo giurisdizionale: infatti, spetterà al Giudice verificare quali fossero in concreto le mansioni svolte prima e dopo la nuova assegnazione, verificando poi se il contenuto di tali mansioni sia tra loro equivalente, non già meramente sul piano formale (se cioè le mansioni siano entrambe inquadrabili nella stessa categoria o livello contrattuale), ma su quello sostanziale (se la nuova mansione sia cioè rispettosa della professionalità del lavoratore), con quantificazione del danno professionale subito in caso venga accertato il demansionamento, da valutarsi anche in base alla durata, gravità, conoscibilità all’interno e all’esterno del luogo di lavoro, aspettative di progressione professionale, effetti negativi sulle abitudini di vita del lavoratore.

Così è stato nel caso deciso, In cui la Corte Territoriale, riformando la sentenza di primo grado, ha riconosciuto il progressivo demansionamento subito dal ricorrente, passato – al di là delle definizioni astratte date ai ruoli via via ricoperti – da mansioni di elevata professionalità ed autonomia, a mansioni meramente esecutive, accertamento condotto sulla base della disamine delle mansioni concretamente svolte dal lavoratore, con condanna del datore di lavoro alla reintegra nelle precedenti mansioni (a in altre equivalenti) e al risarcimento del danno professionale subito.

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C.-App.-Bologna-Sez.-Lav.-sent.-1144-2016-1.pdf
13 Novembre 2018

Cooperative: sempre necessaria l’impugnazione della delibera di esclusione del socio-lavoratore

La disciplina dell’esclusione del socio di cui al riflette l’emersione dell’intento del legislatore di riconfermare la preminenza del rapporto associativo su quello di lavoro, evidenziando uno stretto collegamento genetico e funzionale del rapporto di scambio con quello associativo. La delibera di esclusione da socio è sufficiente a determinare l’automatica estinzione del rapporto di lavoro producendo [leggi tutto]

La disciplina dell’esclusione del socio di cui al riflette l’emersione dell’intento del legislatore di riconfermare la preminenza del rapporto associativo su quello di lavoro, evidenziando uno stretto collegamento genetico e funzionale del rapporto di scambio con quello associativo. La delibera di esclusione da socio è sufficiente a determinare l’automatica estinzione del rapporto di lavoro producendo la cessazione di entrambi i rapporti, sociale e lavorativo, tanto che dalla mancata impugnazione della delibera di esclusione deriva l’inammissibilità sia della domanda volta a ricostituire il rapporto di lavoro ex art. 18 St. Lav. (che non risulta applicabile), sia della domanda volta all’accertamento della dedotta illegittimità del licenziamento, risultando dunque, inapplicabile il rito ex art. 1 co 48 s. L. 92/2012.

In questo senso é intervenuta la Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite con sentenza n. 27436/2017, pronunciandosi in un caso analogo a quello trattato dallo studio (di delibera di esclusione non impugnata e motivata dall’intervenuto licenziamento), in particolare, statuendo che: “La cessazione del rapporto associativo trascina con sé ineluttabilmente quella del rapporto di lavoro. Sicché il socio, se può non essere lavoratore, qualora perda la qualità di socio non può più essere lavoratore. Lo si legge nella L. n. 142 del 2001, art. 5, comma 2, il quale esclude che il rapporto di lavoro possa sopravvivere alla cessazione di quello associativo […] L’effetto estintivo del rapporto di lavoro derivante dall’esclusione dalla cooperativa impedisce senz’altro, in mancanza d’impugnazione della delibera che l’abbia prodotto, di conseguire il rimedio della restituzione della qualità di lavoratore […] L’omessa impugnazione della delibera ne garantisce per conseguenza l’efficacia, anche per il profilo estintivo del rapporto di lavoro. […] Qualora s’impugni il solo licenziamento, difatti, non si prescinde dall’effetto estintivo del rapporto di lavoro prodotto dalla delibera di esclusione”.

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Memoria-difensiva-esclusione-socio-di-cooperativa-licenziamento-per-inidoneita-sopravvenuta.pdf
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